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Fotografia e privacy

Foto di WikimediaImages da Pixabay
 

Questa volta tratto un tema decisamente spinoso, sia per chi con la fotografia ci lavora che per tutti coloro che intendono partecipare a concorsi, con l’ambizione di vedere poi pubblicate le proprie foto. In Italia, con l’introduzione della legge sulla privacy nel 1996, integrata poi dal decreto legislativo 193/2003, è stato reso molto più complicato l’utilizzo di alcune tipologie di foto. La stessa cosa è avvenuta in diversi altri paesi, per tutelare un diritto della persona riconosciuto come inalienabile a livello internazionale.

Se pensiamo alle foto degli anni ‘50 e ‘60 dello scorso secolo, periodo di attività dei maggiori esponenti della street photography, vediamo che colgono prevalentemente scene di vita quotidiana: operai al lavoro, bambini giocanti per strada o famiglie al ristorante. Si tratta di immagini spontanee, nelle quali i soggetti non posano, anzi sono spesso ignari di venire ripresi. Vorrei citarne come esempio alcune piuttosto conosciute, per esempio questa: 

 

Henri Cartier Bresson, Rue Mouffetard, Paris 1954 (fonte: https://www.moma.org/collection/works/88041)

In questa foto di Henri Cartier Bresson vediamo un bambino, di cui è perfettamente riconoscibile il volto. Dalla sua espressione si intuisce che non stava posando, anche se probabilmente aveva visto il fotografo. La stessa inquadratura, un po’ storta, fa pensare a uno scatto “al volo”. La foto è stata esposta in varie mostre, ed è certo che il soggetto, una volta adulto, fosse pienamente a conoscenza di aver contribuito, con la sua immagine, a rendere più celebre l’autore. Secondo le attuali leggi il diritto del minorenne alla riservatezza assume la massima importanza, pertanto una foto del genere non potrebbe venire pubblicata, a meno di ottenere il consenso da parte dei genitori (e in alcuni casi anche avendolo non si può pubblicare ugualmente). L’unica eccezione ammessa dalla normativa è quando la pubblicazione avviene nell’interesse dello stesso minore, ad esempio nel caso in cui questo viene fatto oggetto di violenze e l’immagine ha lo scopo di denunciarle e comprovarle. Non è certo il caso della foto di Cartier Bresson che, se fosse vissuto ai giorni nostri, avrebbe passato molto tempo in tribunale a causa del suo lavoro…

Tuttavia il caro vecchio Henri non sarebbe stato il solo ad avere problemi con la legge, anzi, sarebbe stato in buona compagnia:


Public park, Cleveland, Ohio 1955 (fonte: https://www.artic.edu/artworks/87136/public-park-cleveland-ohio)
 

Qui è palese che il soggetto, addormentato, non si fosse accorto di nulla. Robert Frank inserì questa immagine nel suo libro fotografico The Americans senza andarlo a comunicare alla sua “vittima”. Il diretto interessato nello scatto appare piuttosto buffo e dubito che sia stato particolarmente contento di questa immagine. Forse questa è solo una mia idea, tuttavia è cosa certa che un’immagine del genere attualmente non la si potrebbe pubblicare così; il fotografo infatti deve rendere note al soggetto le proprie intenzioni e, ottenendone il consenso, procedere quindi alla pubblicazione. Quando il soggetto non è d’accordo, niente da fare. Oltretutto vi sono in giro diverse persone convinte che esista un vero e proprio divieto di fotografare, pertanto si sentono legittimate ad insultare o aggredire chi osa solo puntargli addosso l’obiettivo. Questa è una forzatura, nel testo di legge infatti si parla esplicitamente di limitazioni relative all’utilizzo dell’immagine, non all’atto stesso di fotografare, per lo meno in luoghi pubblici.

Da queste premesse appare abbastanza chiaro che, necessitando sempre dell’approvazione per poter pubblicare la foto di qualcuno, anche se ripreso in luogo pubblico, il fotogiornalismo non può più venir praticato come un tempo. Certo può capitare di ottenere il consenso del soggetto su alcune foto, ma difficilmente verrebbero approvate quelle dove appare ridicolo od orribile. Una buona parte delle immagini più espressive verrebbe quindi censurata. Se pensiamo poi a chi deve fotografare gente famosa (maggiormente attenta ai propri diritti rispetto a un “signor nessuno”) capiamo subito perché la maggior parte delle foto di costoro sono ritratti studiati a tavolino. Per non restare imprigionati dalla normativa, molti professionisti che devono lavorare in luoghi pubblici, dove chiunque potrebbe finire nell’inquadratura, offuscano tramite software i volti delle persone fotografate, in modo che sia riconoscibile la scena nel suo complesso ma non i suoi protagonisti e poter poi così pubblicare la foto. Ma l’immagine offuscata potrebbe essere soltanto il primo passo nell’evoluzione di questo settore lavorativo.

L’introduzione delle leggi sulla privacy ha indubbiamente aumentato le difficoltà legate allo svolgimento di un mestiere già difficile di suo. Con questo non voglio affermare che la normativa sia sbagliata; ritengo infatti che in passato siano stati commessi numerosi abusi da parte di fotoreporter (o presunti tali) privi di scrupoli e l’adozione di apposite leggi per regolamentare il diritto di cronaca era cosa giusta e necessaria. Non si può comunque negare che la fotografia come strumento d’informazione ne sia stata compromessa, e anche un umile fotoamatore, se intende partecipare a concorsi in cui la foto vincente viene pubblicata, deve rispettare scrupolosamente la normativa, lasciando magari perdere molte delle sue immagini più interessanti.

Se la fotografia è cosa ben diversa dalla realtà, è altrettanto vero che gli esseri umani sono portati a cercare le immagini per loro stessa natura; in mancanza della foto di un evento narrato se ne creano comunque una loro rappresentazione mentale. In un articolo del 12 gennaio 2017, Il Fatto Quotidiano parla di quella che potrebbe essere la prossima evoluzione del reportage: il “fotogiornalismo ex-post”.

In pratica, per raccontare un avvenimento, invece di fotografare lo stesso incorrendo nelle limitazioni già citate, si procede a ricostruirlo in stile fiction, con dei modelli pagati a interpretarne i protagonisti, senza dover chiedere il consenso di quelli veri. Più che un resoconto della realtà si tratta sostanzialmente di un’interpretazione creativa della stessa. Possiamo ipotizzare che i professionisti dello storytelling sapranno come accentuare, a seconda di quel che viene loro richiesto, gli aspetti drammatici o truculenti di una notizia. Il dubbio è se questo tipo di pratica possa considerarsi vero e proprio fotogiornalismo; se la foto di un avvenimento ha lo svantaggio che finiamo sempre per interpretarla come vogliamo, una creata ad arte potrebbe invece farci vedere solo quello che vuole il suo committente.

Siamo ancora lontani da reportage “creativi” di questo tipo realizzati su vasta scala, tuttavia è una possibilità da considerare. Un’altra cosa però fa riflettere; nello stesso momento in cui delle leggi sono poste a tutela della privacy, numerosi individui gettano in pasto alla rete, senza alcun ritegno, decine e decine di loro immagini (e magari anche quelle dei loro figli minorenni). Una protezione efficace di questo diritto non può certo basarsi solo sul rispetto della normativa da parte dei fotografi, professionisti o amatori che siano; deve invece fondarsi su una vera e propria “educazione alla riservatezza” di tutti, anche e soprattutto quando la privacy che dobbiamo tutelare è la nostra.

La cronaca degli ultimi anni è piena di violazioni compiute grazie alla collaborazione, più o meno involontaria, delle vittime. Per esempio, chi manda ai propri conoscenti foto e video che lo/la ritraggono in situazioni “intime”, non può mai sapere dove andranno a finire; sono in aumento i casi di revenge porn, in cui immagini esplicite della vittima vengono diffuse sui siti hard dall’ex-partner per “protestare” contro la fine della relazione. In altre situazioni invece vi sono stati veri e propri furti d’identità; appropriandosi illecitamente delle foto di persone terze, pubblicate in profili social network non adeguatamente protetti, organizzazioni criminali prive di scrupoli mettono in piedi delle truffe. Tramite le immagini rubate creano profili falsi e li fanno interagire con le potenziali vittime, corteggiandole e sfruttandone accuratamente le debolezze per farsi consegnare del denaro. La trasmissione televisiva Chi l’ha visto, che si è occupata di questi casi, ha pubblicato le segnalazioni relative alle foto rubate e utilizzate a questo scopo, che potete vedere qui.

Nel tutelare la propria privacy sui social network spesso si scende a compromessi con la necessità di apparire. Potremmo essere interessati ad esempio, a conoscere gente coi nostri stessi hobby, o addirittura potenziali partner. Un fotografo amatoriale potrebbe avere semplicemente voglia di mostrare agli altri i propri lavori, e quale vetrina è migliore della rete? Per fare ciò ovviamente è necessario abbassare il livello di privacy, rendendo il nostro profilo visibile anche a persone sconosciute. Facendo così però ci esponiamo al rischio che le nostre immagini vengano rubate e usate per chissà quali scopi. In molti casi il furto resterà impunito, in quanto la vittima potrebbe non accorgersene mai.

Giunto al termine di questa breve riflessione sull’argomento, se ne può concludere che è vero, le attuali leggi a tutela della privacy costringono a scegliere con attenzione ciò che si vuole pubblicare, e probabilmente cambieranno il modo di fotografare. E’ altrettanto vero però che queste leggi proteggono tutti; non solo i nostri potenziali soggetti, ma anche noi! Questo dovrebbe farci comprendere sia com’è cambiata, nel corso degli anni, la percezione dei diritti della persona, sia il rischio che questi ultimi corrono ogni giorno, quando non stiamo attenti nella scelta dei contenuti da rendere pubblici in rete.

Al prossimo articolo!
Alessandro "Prof. BC" Agrati  @agratialessandro


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