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A tu per tu - Filippo Venturi

Mentre cercavamo del materiale per un articolo sulle immagini realizzate con l’intelligenza artificiale, abbiamo scoperto i lavori di Filippo Venturi; fotografo di reportage, ha realizzato dei lavori particolarmente interessanti sia in Italia che all’estero. Ci hanno colpito i suoi scatti realizzati nelle due Coree, attraverso i quali ha cercato di mostrare le realtà locali. Negli ultimi tempi Filippo ha anche pubblicato alcuni progetti fotografici realizzati tramite l’intelligenza artificiale.


Foto dal progetto "Korean Dream" © Filippo Venturi


Raccontaci di te e di come ti sei avvicinato alla fotografia.

Purtroppo il mio incontro con la fotografia non ha dietro una storia romantica, magari legata a qualche familiare che mi ha introdotto a questo mondo, regalandomi una macchina fotografica da giovane. Nel mio caso, mi sono avvicinato unicamente per un interesse personale e spontaneo, sorto inaspettatamente a 28 anni, attraverso l’osservazione di alcune buone fotografie e il conseguente desiderio di imparare a parlare tramite quel linguaggio. A quel punto ho iniziato a studiare da autodidatta, seguendo corsi e guardando attentamente le fotografie dei grandi autori.


Hai degli autori preferiti che ti hanno ispirato?

Inizialmente ho osservato e studiato attentamente i libri fotografici di autori classici come Henri Cartier-Bresson, Robert Capa, Mario Giacomelli, Luigi Ghirri, Martin Parr e tanti altri, che sicuramente rappresentano una parte importante della mia cultura visiva. Successivamente, però, ho tratto una particolare ispirazione da autori come Alec Soth, che hanno usato il linguaggio fotografico abbinato alla documentazione con uno stile moderno e fresco, che ho cercato di replicare nei miei progetti e che trovo molto stimolante. Ovviamente per lavoro mi capita ancora di svolgere reportage più classici ma, quando mi dedico a dei progetti personali adotto quest’altro stile, a volte evocativo e che utilizza anche metafore, ironia, ambiguità e contraddizioni, ma che ha sempre come priorità il testimoniare con attendibilità la realtà.


Foto dal progetto "In Oblivion" © Filippo Venturi


Guardando i tuoi progetti, ci ha colpito la capacità di spaziare tra vari luoghi e argomenti da trattare. Ce n’è qualcuno a cui sei rimasto più legato?

Un lavoro a cui sono molto legato è il primo che ho svolto, “In Oblivion”, che contiene diversi passaggi cruciali per la mia formazione. Intanto, essendo il primo, vi avevo riversato ogni mia risorsa mentale e fisica, considerandolo un test cruciale per capire se potevo o meno lavorare per progetti. Il risultato, ancora oggi, mi soddisfa e i riscontri positivi che ho avuto a quel tempo mi diedero molta determinazione nel continuare su questa via. Inoltre, quella situazione, in cui documentavo Red Hook, un quartiere di New York caduto in disgrazia e che era stato abbandonato dagli abitanti, mi costrinse a fermare e parlare con le poche persone che all’epoca lo stavano ripopolando: sarebbe stato difficile fotografarle senza farmi notare. Adottai per la prima volta la forma del ritratto ambientato di persone che non conoscevo e che, fino a quel momento, mi era risultato ostico anche a causa della mia timidezza; in seguito è diventato una componente fondamentale di molti miei progetti, così come la raccolta di interviste e altro materiale. L’incontro con le persone è diventato fondamentale per me, come persona, come viaggiatore e come fotografo.
Tengo molto anche ai lavori che ho svolto durante la pandemia di Covid-19 perché ha rappresentato un’altra sfida per me: passando dal viaggiare per il mondo all’essere chiuso in casa, come tutti durante il lockdown. Dovetti reinventarmi e trovare idee che mi permettessero di documentare quel periodo storico rispettando tutti i limiti imposti, come quella di ritrarre e intervistare 40 fattorini sul cancello di casa mia (“Riders at the time of Coronavirus”) e che andò molto bene. Grazie a quelle idee riuscii anche a guadagnare qualcosa in un periodo dove ogni lavoro fotografico era saltato.
Sono molto legato anche al progetto sulla penisola coreana, che porto avanti dal 2015 e nel quale ho documentato i giovani sudcoreani (nel capitolo intitolato “Made in Korea”), i giovani nordcoreani (“Korean Dream”) e anche i nordcoreani che sono fuggiti dal proprio paese in cerca di una vita migliore (“Awakenings”). È il progetto che ha dato la svolta alla mia carriera.


Foto dal progetto "Awakenings" © Filippo Venturi


Dal punto di vista tecnico, notiamo una certa preferenza per il posizionamento del soggetto al centro del fotogramma. Le tue immagini tuttavia presentano sempre un bilanciamento tra il soggetto e contesto in cui è inserito; quali regole compositive ti guidano?

Si, è così, spesso sfrutto la centralità del soggetto. Le regole compositive che utilizzo non sono particolarmente complesse per realizzare un ritratto ambientato. Molte volte ragiono sul contesto, come fossero fotografie d’architettura in un certo senso, e posiziono il soggetto in modo che si inserisca senza sbilanciare la composizione.
Non è raro per me trovare/riconoscere prima il posto e poi la persona da ritrarre. In ogni caso non stravolgo mai la realtà: se intendo fotografare uno studente all’interno dell’università, sceglierò una stanza o un luogo in cui ambientare il ritratto fra gli spazi di quella struttura. Non allestisco mai set né porto i soggetti in luoghi che non siano i loro. Altre volte mi è capitato di dover realizzare ritratti in un luogo dove avevamo fissato un appuntamento, senza possibilità di scelta, come ad esempio in un bar oppure in un ufficio; col tempo e con l’esperienza ho sviluppato un certo talento nel pensare rapidamente a come sfruttare la luce naturale e i pochi spazi a disposizione.



Foto dal progetto "Made in Korea" © Filippo Venturi


Che tipo di attrezzatura utilizzi solitamente per fotografare? Utilizzi qualche tecnica particolare?

Spesso nei miei lavori devo muovermi molto a piedi e quindi, col tempo, ho imparato a ridurre l’attrezzatura che porto con me. Diciamo che la mia configurazione ideale è girare con una reflex full frame, 3 obiettivi (35mm, 50mm e 24-70mm) e un flash, a cui abbino dell’attrezzatura di scorta contenuta in un altro zaino che lascio in albergo (o nel luogo dove ho base) come un’altra reflex full frame e altri obiettivi (ad esempio 16-35mm e 70-200mm).
In altre situazioni dipende molto dal contesto e dal tipo di immagini che mi aspetto di realizzare. Quando lavoro come fotografo sportivo, devo stravolgere completamente il contenuto dello zaino e portarmi dietro diversi teleobiettivi, ma almeno sono situazioni in cui non devo camminare per ore con quel peso sulla schiena.
In Corea del Nord, ad esempio, sono andato con 3 corpi macchina e una infinità di obiettivi, batterie e memorie per aggirare ogni possibile ostacolo: dall’evitare che la rottura di un corpo macchina mi impedisse di fotografare (da qui la scelta di portarne 2 di scorta), al ridurre il rischio che i frequenti blackout che avvengono in Corea del Nord mi lasciassero senza batterie cariche, all’effettuare il backup delle fotografie già in fase di scatto, salvandole su due memorie alla volta, perché avevo scelto di non portarmi dietro il notebook (che avrebbe allungato notevolmente i continui controlli a cui ero sottoposto). Mi è anche capitato di girare e fotografare con soltanto una compatta, in ambienti dove non dovevo attirare l’attenzione.


Sintografia tratta dal progetto "Broken Mirror" © Filippo Venturi


Come sei approdato all’intelligenza artificiale? Come pensi che questa possa influenzare il futuro della fotografia?

In una vita passata mi sono laureato in informatica ed ero attento a qualsiasi innovazione nel settore. Poi, col crescere dell’interesse per la fotografia, è scemato quasi completamente quello per l’informatica, ma ho continuato a tenere un occhio sulle nuove tecnologie, in particolare quelle che riguardano le immagini, compresa quindi la possibilità di generarle con i software che fanno uso di intelligenza artificiale. L’argomento è molto complesso e, in proposito, mi è capitato di fare incontri e masterclass dove snocciolavo la tematica. Volendo riassumerlo in poche righe, direi che fotografie e sintografie (cioè le immagini generate con intelligenza artificiale) dovranno inevitabilmente convivere, con tutti i pro e i contro che possiamo immaginare, specie se mancherà un’etica e una serietà da parte degli autori. In alcuni settori, come la fotografia commerciale o comunque quella che idealizza un prodotto, si sovrapporranno e potranno essere indistinguibili, mentre in altri settori, come il fotogiornalismo e la fotografia documentaria, mi auguro che le sintografie non trovino spazio. In ogni caso credo che un fotografo, oggi, si trovi davanti al bivio se restare un “fotografo classico” oppure allargare le proprie conoscenze e competenze anche all’uso dell’intelligenza artificiale, diventando un professionista dell’immagine più in generale, che credo sarà l’evoluzione naturale di questo mestiere.


I reportagisti spesso abbracciano una causa e scattano al servizio di essa; in ogni caso, per un autore del genere la possibilità di provare coinvolgimento emotivo è parte del lavoro. Questo vale anche per te?

Per chi fa reportage è importante informarsi, studiare, verificare le notizie, ecc. prima di passare alla fase di scatto. Quindi è inevitabile che, quando affronterà e si immergerà nella situazione che intende documentare, abbia già un proprio punto di vista, se non addirittura l’aver abbracciato una causa. L’importante è non chiudere gli occhi nel caso ci si trovi davanti a situazioni che contraddicono l’idea che ci eravamo fatti. Definisco spesso il mio lavoro come quello di un testimone che riporta con la fotografia ciò che ha visto e, per questo, non posso omettere niente.
Viviamo in un mondo dove le persone, sempre più spesso, si dividono in posizioni ottuse, per questo è importante che qualcuno riporti con serietà anche le sfumature, le ambiguità e le contraddizioni che caratterizzano il nostro mondo.



Parada Równości © Filippo Venturi


Fra tutti i tuoi lavori, quale ti ha maggiormente coinvolto?

Mi viene in mente un lavoro che ho svolto diversi anni fa all’interno di un Nucleo Alzheimer in una casa residenza per anziani. Vi ho trascorso all’interno diversi pomeriggi, in compagnia soltanto degli ospiti che, purtroppo, si trovavano in uno stadio avanzato del morbo. A livello mentale è stato veramente spossante, assistere a queste persone svuotate dei propri ricordi, impegnate a ripetere movimenti e versi senza soluzione di continuità; oppure vederle immobili e spente. L’ambiente, come spesso accade in questi casi, anche per salvaguardare la salute delle persone, era asettico e spoglio, con piccole eccezioni dovute a singole fotografie, libri di poesie o preghiere e poco altro, lasciati dai parenti sui comodini: appigli a cui queste persone non erano più in grado di aggrapparsi e, al tempo stesso, speranze vane dei parenti stessi. La perdita della memoria e dell’identità, specie per un fotografo che raccoglie ricordi e frammenti di realtà, è davvero straziante.
Altre volte ho documentato situazioni che invece mi davano speranza per il futuro. Ad esempio nell’estate 2022 ho documentato diverse manifestazioni in paesi a rischio dittatura come Ungheria e Polonia, fra cui la Parada Równości (la marcia dell’uguaglianza) di Varsavia, dove erano confluiti giovani polacchi, ucraini (fuggiti dall’invasione russa) e bielorussi (molti attivisti sono scappati dopo le tremende repressioni post-elezioni 2020, trovando riparo in Polonia). Quella gioventù, quella vitalità e quella forza che manifestava con vigore nelle vie della città, per i diritti di diverse minoranze e contro la dittatura, è stata veramente una fonte di ottimismo e speranza.


Vi sono state esposizioni dei tuoi lavori di recente?

Al momento è possibile vedere la mostra del mio lavoro “Awakenings” all’Helsinki Photo Festival (fino al 30 ottobre), al Festival della Fotografia Etica di Lodi (fino al 29 ottobre) e alla Biennale Countless Cities a Mazzarino, in Sicilia, fino al 28 gennaio 2024. Inoltre il mio lavoro “Broken Mirror”, svolto tramite l’intelligenza artificiale, sarà esposto al PhotoVogue Festival a Milano, a novembre.


Quali progetti intravedi nel futuro per la tua attività fotografica?

Negli ultimi mesi ho sperimentato molto con l’intelligenza artificiale, ma sento il bisogno di ri-tuffarmi nella realtà. Seguo con attenzione alcuni paesi e situazioni nel sud-est asiatico.


Foto da "Riders at the time of Coronavirus" © Filippo Venturi


Qual è il tuo rapporto con i social network?

Ritengo che siano essenziali per la promozione del mio lavoro, per mantenere alcuni contatti professionali anche in modo indiretto e per essere aggiornato su eventi e notizie. Rischiano però di farmi perdere molto tempo quando cado nelle dinamiche dell’intrattenimento che offrono, spesso ipnotizzante ma anche inutile.


Ringraziamo Filippo per averci concesso quest'intervista, se considerate i suoi lavori interessanti vi invitiamo a seguirlo tramite i suoi profili social. 

https://www.filippoventuri.photography


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